Ogni tazzina racchiude un ‘espresso’ di culture, di racconti, di luoghi tra i più variegati tra loro, ma anche fragranze e sapori, che sanno di viaggio e di scoperta allo stesso tempo: questo perché il tragitto che compie ogni chicco per raggiungere i nostri tavoli è lungo e affascinante.
Non basta poi avere una selezione precisa di varietà da abbinare assieme per garantire il risultato finale dell’espresso: dalla coltivazione al confezionamento, molti dettagli intervengono infatti a determinare la qualità e l’intensità del caffè.
Percorriamo allora questo viaggio alla scoperta della pianta di Coffea, la drupa di caffè: all’interno di questo articolo affronteremo le prime fasi di lavorazione, che partono appunto dalla classificazione e conoscenza della pianta fino ad arrivare alla raccolta del seme.
Si chiamano tutti caffè, ma in realtà ogni chicco è unico e irripetibile!
Non solo diverse zone di produzione danno un risultato in tazza differente, ma si hanno anche, semplicemente, vari livelli di intensità nella stessa singola zona di origine.
Alcuni chicchi traggono il massimo del beneficio in miscela con altre varietà, in quanto così riescono a bilanciare caratteristiche mancanti, oppure a coprire difetti (come succede con il vino); altri invece sono al loro apogeo nella loro individualità, esaltati nella loro specificità.
Per cercare di fare ordine in questa smisurata varietà, il nostro viaggio non può che partire allora con la pianta di Coffea, la drupa di caffè, ovvero con il tentativo di delineare i contorni dell’arbusto dal quale tutto ha inizio. La pianta di caffè appartiene alla famiglia della Rubiaceae.
Essa presenta centinaia di diverse coltivazioni, più di 500 generi e oltre 2000 differenti varietà, in continua scoperta.
Le due specie principali coltivate per la produzione del caffè sono la Coffea Arabica e la Coffea Canephora (comunemente conosciuta come Robusta), e hanno caratteristiche diverse tra loro.
L’Arabica è più ricca di sostanze aromatiche ma anche più povera di caffeina, con un valore compreso tra lo 0.8 e l’1.4% del totale, rispetto all’1.7-4% che fa invece registrare la Robusta.
La pianta di Arabica è poi più delicata: necessita infatti di particolari terreni e climi per la sua sopravvivenza, crescendo solitamente ad alte altitudini, con temperature dai 15° ai 24°C e precipitazioni da 1500-2000 mm medie annue (fattori che ritroviamo in tazza sotto forma di una piacevole complessità aromatica).
La pianta di Canephora è più resistente alle malattie, grazie anche alla maggiore quantità di caffeina (antiparassitario naturale) che può vantare: può crescere ad altitudini più basse, con una fascia di temperatura media dai 24° ai 30° e maggiori precipitazioni. Il risultato di una tale conformazione è un chicco più piccolo e con una forte componente amara.
Entrambe hanno diverse sottovarietà e differenti ceppi di tipologie naturali ‘primitive’, chiamate ‘varietà Heirloom’: sono questi semi a impollinazione libera, conservati e tramandati di generazione in generazione (di solito all'interno di una famiglia o una comunità), parte così di un processo che permette loro di portare con sé un patrimonio di bio-diversità che prende forme, colori, profumi ed aromi spesso sorprendenti.
Esistono poi varietà ibride nate da incroci botanici ed innesti sviluppati per resistere a determinate malattie o zone geografiche, dove non sarebbe stato possibile la coltivazione.
Quando cresceva spontaneamente, l’Arabica era la prevalente, e sebbene ancora oggi copra circa il 60% della produzione totale, in questi ultimi decenni la Robusta sta diventando sempre più disponibile, e grazie alla maggiore produttività per pianta che garantisce, al crescente numero di piantagioni e ai prezzi nettamente inferiori che può vantare, allarga sempre più il volume del suo commercio.
Completano poi il quadro d’insieme altre due specie, la Coffea Liberica e Coffea Excelsa, che non hanno però molto mercato per i tempi maggiori di maturazione e la limitata produzione per pianta che possono offrire.
Oltre alla specie botanica alla quale la pianta di caffè appartiene, ci sono altri fattori che possono influire sull’intensità e qualità del caffè, e di conseguenza anche sul risultato dell’espresso in tazza:
Osserviamo più da vicino alcuni di questi aspetti.
La piantina di caffè in coltivazione, per i primi sei/nove mesi di vita, cresce nella ‘nursery’, un ambiente protetto dal sole con un apporto d’acqua controllato dove, sulla falsariga di quanto avviene nei nostri reparti di ostetricia, i nuovi nati vengono lentamente introdotti al campo e, quindi, alla luce del sole. In diverse piantagioni, per non avere raggi solari diretti sulle piante, si posizionano sul terreno anche alberi di protezione, in modo da assicurare l’ombra, in diversi momenti della giornata, agli arbusti di caffè: in questo modo la drupa matura più lentamente e sviluppa maggiormente al suo interno le sostanze aromatiche.
Nelle grandi piantagioni invece, dove il raccolto avviene con le macchine, solitamente le piante sono in terreni collinari più pianeggianti, maggiormente esposte alla luce diretta del sole: ecco quindi che la maturazione delle drupe si verifica più velocemente e si può notare una ridotta complessità aromatica.
Perché la pianta di caffè produca le prime drupe rosse occorre aspettare tra i 2 e i 4 anni dal momento in cui lascia la ‘nursery’, dopodiché si è soliti ritenere il quinto anno come il momento del primo buon raccolto per il mercato; mentre tra il decimo e il quindicesimo anno arriva il dopo il quale la vita produttiva della pianta tramonta, e poco oltre i trent’anni la conclusione del suo ciclo vitale. La drupa ha bisogno dai 7 agli 11 mesi per arrivare alla sua piena maturazione (e passare quindi da verde a rosso intenso), ed esistono diverse ed alternative tecniche per la sua raccolta, ognuna delle quali in grado di incidere sul chicco stesso.
La migliore in termini di qualità è quella a mano, chiamata ‘picking’: questa è più lenta ed impegnativa, in quanto i raccoglitori devono distinguere tra le drupe rosse mature da prelevare e quelle ancora immature da lasciare sul ramo (che verranno raccolte in un secondo tempo), in un procedimento di ‘vendemmia’ che solitamente richiede il ritorno sulla stessa pianta in due o tre momenti diversi. Anche la tecnica ‘a strappo’ è sempre a mano, però si differenzia dalla precedente per la velocità del processo e la ridotta selettività che vi è alla base: chi si serve di questa pratica passa sulla pianta una sola volta (strappando dal ramo le drupe mature ed immature), il che incide anche su una considerevole riduzione dei costi di manodopera.
La raccolta per mezzo delle macchine, infine, è possibile solo in quelle piantagioni attrezzate e ad essa predisposte: viene impiegata nelle grandi estensioni dove il raccolto è abbondante e di media qualità, e non necessita di molta manodopera stagionale.