Questo nostro viaggio intorno alla drupa di caffè ci porta ad affrontare il variegato mondo dei metodi di lavorazione del caffè, chiamati in causa a raccolta avvenuta, dando nelle conclusioni spazio anche a un paio di riflessioni sul caffè biologico.
Si tratta dell’originario metodo di separazione tra chicco, buccia, polpa e pergamino: trova le sue radici tra l’Etiopia e lo Yemen, agli albori della commercializzazione del caffè, in aree dove l’acqua scarseggia e, all’opposto, il sole non manca!
In osservanza di questa pratica, le drupe pulite (e cioè selezionate tra quelle verdi e quelle troppo mature che vengono scartate), vengono sparse in uno strato alto qualche centimetro in aree di cemento pianeggianti specificatamente edificate, chiamate patios: più alto è lo strato più all’interno si creerà umidità.
Le drupe lasciate seccare al sole vengono girate con rastrelli durante tutto l’arco del giorno, in modo da uniformare l’asciugatura ed evitare l’insorgenza di muffe e lo sviluppo di batteri.
Al tramonto si raggruppa il raccolto per proteggerlo, stendendo degli appositi teli, dall’umidità della notte, ed il mattino seguente viene steso di nuovo, in un processo di ‘seccatura’ che può teoricamente durare fino a 3 settimane. Sulla sua durata incide il livello di umidità presente nell’aria: la pioggia infatti interferisce sulla resa del raccolto intaccando la costanza della sua qualità (ecco perché è un procedimento di lavorazione altamente sconsigliato in zone geografiche particolarmente piovose, come ad esempio il centro America).
Una volta che la buccia e la polpa sono secche, per mezzo di un macchinario, manuale o automatico, si sguscia il chicco senza intaccare il pergamino (lo strato interno alla drupa che avvolge il chicco stesso), il quale viene rimosso solo nel momento immediatamente precedente all’esportazione.
Il Cascara (letteralmente ‘buccia’ in spagnolo), un infuso molto popolare nei paesi centramericani, è un prodotto secondario del processo a secco appena incontrato, e non è altro che la buccia secca della drupa, tradizionalmente adoperata dai lavoratori delle piantagioni per avere una dolce bevanda rinfrescante. In Bolivia è nota sotto il nome di ‘Sultana’, mentre in Yemen è chiamata ‘Qishr’ e viene solitamente servita con l’aggiunta del ginger.
Si tratta di una bevanda che fino a pochi anni fa, lavoratori delle piantagioni a parte, era per lo più sconosciuta: il successo è infatti arrivato con il campionato mondiale Barista del 2011 (organizzato da SCAA e SCAE), nel corso del quale il campione nazionale di El Salvador Alejandro Mendez (e poi vincitore del World Barista Championship), ha utilizzato proprio il Cascara per il suo signature drink.
Da quel momento è iniziata la sua commercializzazione in larga scala, che ha visto la nascita di caffetterie specializzate ed una sua produzione anche in bottiglia.
Tra i metodi di lavorazione del caffè, troviamo anche il processo lavato (chiamato anche ‘washed’), che caratterizza poi il caffè in tazza con una intensa nota aromatica, ed un corpo più leggero rispetto ai caffè ‘naturali’ appena incontrati.
Alla luce delle grandi quantità di acqua che vengono impiegate all’interno di questo processo, dalla selezione e fermentazione del chicco fino alla pulizia e rimozione dei vari strati che compongono la drupa di caffè, è sicuramente il metodo preferito e raccomandato in quelle aree caratterizzate da una forte piovosità, o che comunque possono contare su grandi bacini idrici a disposizione.
La selezione avviene dentro una vasca, all’interno della quale le drupe mature affondano mentre quelle immature galleggiano (dette anche per questo ‘floaters’), e quindi facilmente rimosse. Le drupe mature passano quindi all’interno di un macchinario chiamato Pulper, che rompe e separa la buccia e la polpa dal chicco, dirottando quest’ultimo all’interno di una seconda vasca dove, in una sorta di mucillagine appiccicosa, ha inizio la fermentazione (che può durare dalle 12 alle 36 ore).
In questa fase, i naturali enzimi della frutta presenti intervengono a rompere tutti gli strati rimasti della mucillagine, in un processo molto delicato durante il quale gli operatori devono prestare attenzione per impedire tanto una sovra fermentazione quanto l’eventuale presenza di chicchi difettati, per non rischiare poi di rovinare per questo l’intero lotto.
La successiva vasca pulisce allora da ogni residuo di polpa il chicco, lasciandolo completamente pulito ed avvolto dal pergamino (in una condizione che in termini tecnici lo qualifica come Parchment Coffee).
Siamo quindi arrivati all’asciugatura, che può avvenire secondo due metodologie distinte:
Entrambe le modalità assicurano una buona qualità, a patto che vengano rispettati certi accorgimenti: ad esempio la presenza di chicchi sovra fermentati, o difettati, nell’asciugatura al sole può portare ad aromi sgradevoli nell’intero lotto, propagandosi su altri chicchi; mentre se l’asciugatura meccanica avviene troppo velocemente, il chicco avrà la superficie esterna più dura di quell’interna, un dettaglio che potrà poi influenzare la tostatura.
Come nel caso del Natural Process, il pergamino verrà poi rimosso tramite una macchina sgusciatrice (detta ) in prossimità dell’esportazione, e posto quindi in sacchi di iuta che oscillano tra i 60kg ed i 69 kg, in relazione allo specifico Paese di riferimento.
La principale differenza tra un caffè ‘naturale’ (ottenuto mediante processo a secco) ed un caffè ‘lavato’ (risultato invece del processo lavato) possiamo evidenziarla nella quantità di solidi disciolti durante l’estrazione del caffè, cioè della nostra bevanda: nei caffè naturali infatti si rileva un maggior volume di solidi solubili, ed è per questo che possiamo notare un corpo maggiore nel nostro Espresso.
La viscosità ed il corpo sono infatti caratteristiche in grado di incidere profondamente il livello sensoriale dell’Espresso, e questo giustifica il fatto che i caffè naturali sono buoni componenti per la costruzione di un blend per Espresso.
Seguendo l’onda del cibo naturale, sempre più paesi hanno iniziato ad interessarsi ad un nuovo metodo di produzione e lavorazione del caffè, ovvero il biologico. Certificazioni come Faitrade, Rainforest Alliance e UTZ Certified sono sempre più comuni. Per ottenerle, le fazende e le cooperative devono osservare standard bio e di sostenibilità, oltre a sviluppare in loco, nella maggioranza dei casi, programmi di sanità sociale e di sensibilizzazione al rispetto per le donne e per i bambini.
Generalmente, le legislazioni relative alle coltivazioni di caffè bio proibiscono l’uso di prodotti chimici finalizzati alla crescita delle piante, stilando un lungo elenco di sostanze proibite che solitamente comprende fertilizzanti, erbicidi e pesticidi sintetici. Il processo di lavorazione e stoccaggio è poi meticolosamente controllato, con la classificazione dei chicchi e la compilazione, per ogni lotto, di un documento che ne registra tutti i passaggi che lo portano al consumatore finale.
Uno degli aspetti più rilevanti del caffè biologico è la sostenibilità della sua coltivazione. Nelle piantagioni bio, la pianta di caffè cresce spontaneamente all’ombra degli alberi, i quali provvedono a fertilizzare il terreno con la caduta delle loro foglie, e a mantenere nell’ambiente stesso una certa umidità. Nel frattempo uccelli e insetti si prendono cura delle pesti o delle possibili malattie, andando a determinare un microsistema biodinamico autonomo e funzionante.
Una delle conseguenze più deplorevoli della crescente domanda mondiale di caffè (ed il mercato bio è fra i più in crescita in molti Paesi) è la mutazione che questa comporta in vaste aree del pianeta, con l’esteso disboscamento di larghe parti di foresta pluviale al fine di far posto alle piante di caffè, spesso ibride, adatte a crescere sotto il sole diretto e con una maggiore produttività, destinatarie per di più di dosi massicce di fertilizzanti e di antiparassitari.
La perdita delle foreste pluviali selvagge e delle culture spontanee è irreversibile non solo per la pianta del caffè, ma per intere colonie di animali, diverse specie di uccelli e i più vari microorganismi, in un processo che ha ripercussioni addirittura su scala generazionale: è stato infatti calcolato che occorra un minimo di quattro-cinque cicli (pari a diverse centinaia di anni) per giungere al ripristino di una sola foresta pluviale.